Giovedì 19 aprile 2007
C'era una volta l'AFGHANISTAN
a cura di Claudio Cardelli
Sala “Federico Fellini” - Corso G.Mazzini, Gambettola - ore 20.45
Trenta anni fa...
Gli uffici della frontiera tra l'Iran e l'Afghanistan nel 1977 erano lo specchio di una tragedia umana che si consumava lungo le polverose strade dell'Asia centrale. Un popolo di superstiti delle ideologie potenti e in qualche modo destabilizzanti che l'avevano fatta da padrone nell'ultimo decennio cercava nuovi orizzonti interiori.
Purtroppo l'inquietante "museo" allestito dalle autorità iraniane per scoraggiare il traffico di droga che proveniva dall'Afghanistan, dal Pakistan e dall'India, offriva invece l'angosciosa immagine di molte vite rovinate dalla suggestione delle "coscienze allargate". Hascish, eroina, oppio e quant'altro si rimediava a poche lire in quei paesi, uniti alla suggestione delle filosofie orientali, erano l'alimento quotidiano di migliaia di disperati che spesso finivano la loro esistenza in qualche fetida galera o nel piccolo cimitero cristiano di Kabul pieno di lapidi con nomi europei.
Prima di arrivare all'ufficio visti di Tayabad dovevi passare davanti ad una fila di bacheche con i sinistri reperti sequestrati ai viaggiatori trovati in possesso di "merce" illegale. Tubi di dentifrici, scarpe sventrate, scacchiere aperte in due, marmitte di pulmini, borracce....e poi un biglietto con nome, cognome, (moltissimi italiani) quantità in grammi di sostanza e anni di carcere, sempre molti, inflitti.
L'Iran era severissimo in fatto di stupefacenti e mentre il governo garantiva agli anziani una razione di oppio per "alleviare gli acciacchi della vecchiaia", prevedeva anche la fucilazione per spacciatori e trafficanti. Ricordo benissimo di aver letto il nome di un ragazzo, credo sardo, che per venti grammi di hashish aveva ricevuto una condanna a dodici anni di carcere e immagino che le galere persiane non fossero propriamente dei centri residenziali.
Ricordo che tutto quel lunghissimo viaggio (23.000 km su un Fiat 242) fu un po' all'insegna di incontri, spesso singolari, con esponenti di questo popolo.
A volte ci sentivamo decisamente fuori posto. Noi, spinti semplicemente dalla voglia di "avventura", eravamo anche un po' snobbati. I nostri miti, devo confessarlo, non erano Ginsberg o Keruak o il Maharishi Mayeshi Yogi, ma si trovavano tra i protagonisti dei grandi raid con le Land Rover o i pulmini Wolkswagen. La mia iniziazione "asiatica" era avvenuta già sette anni prima con una vecchia R4 a tre marce con la quale avevo "solcato" gli spazi sterminati della Turchia, ma questo per noi era il vero primo grande raid extra europeo.
Le mete popolari erano Capo Nord, il Marocco o Istanbul ma il viaggio via terra fino all'India evocava qualcosa di grandioso. Ci riportava alle scorribande mongole, a Marco Polo, ad Alessandro il Macedone. Ed ora, dopo quasi 5000 km di strada attraverso la Yugoslavia, la Bulgaria, la Turchia e l'Iran, eravamo finalmente giunti lì a pochi chilometri da Islam Qalà, attraverso il deserto di Lut, ai confini di quell'affascinante crocevia dell'Asia che era allora l'Afghanistan.
Indimenticabile quell'ingresso nella terra dei Pathàn, degli Hazarà dei Kalàsh.
Bamyan - Foto di Claudio Cardelli
La frontiera afghana era mille anni indietro rispetto a quella iraniana. Una ventina di chilometri di terra di nessuno separava il potente Iran di Rezha Pahlavi dal medievale Afghanistan.
L'ufficio doganale era una costruzione di fango del tutto simile alle capanne dei villaggi lungo l'unica strada che attraversava il paese nella parte meridionale. Due stanzette e due curiosi funzionari con divise sbrindellate svolgevano con svogliata lentezza le pratiche. Il modulo, un foglio ciclostilato malamente da riempire con i dati anagrafici, veniva distribuito da un gracchiante ragazzotto che ostentava una fascia al braccio con scritto "Police" con una biro. Per terra, stravaccati fra mosche e sacchi di iuta maleodorante, gruppetti di hippies, famigliole di locali e qualche "rambo" in mimetica aspettavano più o meno pazientemente di entrare o uscire dal paese. Tutto l'insieme aveva dell'incredibile. Nel cortile, mentre un tipo inturbantato compie ricerche molto superficiali con uno specchio sotto un minibus di un gruppetto di freaks olandesi, tre afghani vestiti come nelle "mille e una notte" caricano all'inverosimile un autocarro. Il camion, nella migliore tradizione afghana, è tutto dipinto con soggetti che ritraggono paesaggi lacustri, oasi, danzatrici. Un piccolo sogno di freschezza da portarsi dietro nella disperata e sassosa solitudine dei deserti e delle brulle montagne dell'Hindukush. Gli afghani, che ridono come matti del loro stesso sfidare gli equilibri delle fisica, hanno raggiunto una considerevole altezza e tutto il carico di sacchi contenenti merci varie pende decisamente da un lato. Osserviamo estasiati tutto questo spettacolo. L'Iran, a venti chilometri, con i suoi poliziotti in Harley Davidson, le Chevrolet Cherokee, i boulevard mittleuropei di Teheran sembra veramente lontano anni luce. Qui è tutto improvvisato, conquistato attimo dopo attimo. C'è un lontano governo non meglio identificato. Negli uffici pubblici fotografie di re e presidenti si avvicendano rapidamente su un paese che rimane, e rimarrà, un crogiolo di etnie e tribù spesso in grave contrasto.
Herat: La Moschea del venerdì. - Foto di Claudio Cardelli
Il camion intanto parte barcollando tra le ovazioni degli astanti. Poco dopo anche noi otteniamo l'agognato visto di ingresso e, ormai al tramonto, ci avviamo lentamente verso le città di Herat distante poco più di cento chilometri. Ci muoviamo assieme a quattro ragazzi bolognesi dotati di un fascinoso pulmino Wolksvagen: di quelli con il parabrezza diviso in due, per intenderci.
La strada, una pista maltracciata con avanzi di lastre di cemento, è deserta. Procediamo spesso appaiati scambiandoci grandi gesti di entusiasmo di fronte a questo affascinante Nulla. A poca distanza, al primo accenno di semicurva, il camion stracarico è capottato e gli afghani, sempre urlano e sempre ridendo, stanno ricomponendo il carico forse sapendo che da qui ad Herat non ci sono più curve...
Arriviamo al primo villaggio, un ammasso di abitazioni basse e color ocra che si confondono con il paesaggio circostante. All'orizzonte la palla del sole rosso fuoco si staglia su un profilo di rovine di antiche fortificazioni. Improvvisamente un cavaliere con un turbante bianco spunta da una viuzza del villaggio e si mette a galoppare al nostro fianco facendo grandi gesti di saluto e sollevando sassi e polvere. Guardo i bolognesi che, come si dice, come noi hanno gli occhi fuori dalla testa. Sembra un sogno e alla sera tardi, in un buio pesto, i fari del nostro camioncino finiscono col riflettersi su una specie di superficie dorata. Erano le mura in maiolica della grande moschea di Herat: Eravamo arrivati nel centro di una città di centomila abitanti e non ce ne eravamo neppure accorti. Era il 1977 ma poteva essere anche il 1880 o il 1600. Questo fu l'arrivo in Afghanistan.
Herat: Il mercato. - Foto di Claudio Cardelli
Breve Biografia
Claudio Cardelli, 1950, vive e lavora a Rimini.
Ha iniziato a viaggiare in Asia alla fine degli anni ’60 e da allora ha compiuto innumerevoli spedizioni e viaggi di ricerca approfondendo in particolare la conoscenza delle regioni Himalayane. Alla fine degli anni settanta inizia la sua attività di divulgatore, giornalista reporter e conferenziere. Pubblica un gran numero di servizi e reportage sulle principali riviste di settore. Airone, Gente Viaggi, Geodes, L’Umana Avventura, Alp, Sette, Venerdi di Repubblica e altri mensili.
Alla fine degli anni ’80 inizia la sua attività di regista televisivo collaborando da subito con la Rai a cui fornirà una gran mole di materiale sui paesi asiatici. E’ il primo reporter a realizzare un documentario sulla regione del Ladakh in pieno inverno. E’ ancora il primo a girare un documentario sul Mustang.
Con la Rai inizia una fitta collaborazione, e che dura tuttora, prima con la rubrica Mixer, poi Alla Ricerca dell’Arca, Il Viaggiatore, Alle falde del Kilimangiaro e con la nota rubrica di viaggi e cultura Geo & Geo, per la quale realizza: “Bhutan la terra del Drago”, “Kutch, la culla delle carovane”, “Laos - Ascolta crescere il riso” e “Laos - I popoli”, “C’era una volta l’Afghanistan”, “Il teatro del Dalai Lama”, “L’oriente dell’India” e “La strada degli schiavi”.
Realizza e pubblica poi in 19 paesi, tra cui Stati Uniti e Giappone, il documentario “I reami del Tibet” distribuito in Italia dalla De Agostini e altri Home Video tra cui “Tibet cuore dell’Asia” e “Dalai Lama: l’Oceano di Saggezza”. “Due Ruote sul Tetto del Mondo” è il resoconto filmato del suo recente viaggio in motocicletta attraverso la carrozzabile più alta del mondo nel Kashmir indiano.
Per il Touring Club realizza da solo e pubblica, per la prima volta in Italia, un CD-Rom “Tibet”, sulla storia, la cultura e le tradizioni del Tetto del Mondo che viene distribuito da “La Repubblica”, poi collabora alla stessa collana per un CD-Rom sull’India.
Illustra il libro di Piero Verni “Mustang ultimo Tibet”, scrive e documenta con le sue foto due volumi pubblicati dalla Bayer: “Tra Valli e Picchi” e “Verso il Cuore del Mondo”.
Nel 1996 vince con “Bhutan” il premio speciale della giuria al XXI Festival internazionale del film turistico a Milano. Nel 2001 assieme a Piero Verni vince il premio “Bruce Chatwin” con “In Fuga dal Tibet” ed ancora vince con Giorgio Casadio il primo concorso per film d’autore “Romagna Felix” di Ravenna con “Ad Oriente dell’India”.
Il suo ultimo lavoro “Georgia la terra del Vello d’oro” è di prossima programmazione in RAI nella trasmissione Geo & Geo.
Ultimo aggiornamento (last update): 23 febbraio 2007
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